venerdì 19 marzo 2010

Sigmund Freud

La narrazione all'Università




Un buon docente è anche una persona che sa raccontare delle "buone" storie.

mercoledì 6 gennaio 2010

Il cuore

"La fortuna è
quel che vedono
i tuoi occhi"
dice un proverbio indiano.
A volte dimentichiamo quanto fortunati siamo.
E non riusciamo a vedere quello che la vita ci ha regalato
e ancora ci dona.
E non ringraziamo nessuno.
E tra i tanti regali, qualcuno ci può deludere.
Allora ci concentriamo sul regalo che ci ha deluso
e non godiamo degli altri.
Consumiamo così tante energie su poche cose negative
che non riusciamo ad avanzare energie per godere di quelle cose belle,
e sono davvero tente, che la vita ci regala.

E' dura la vita
e ci riserva momenti molto duri.
Ma non solo quelli!
Il problema è che anche il nostro cuore si indurisce
e non sente più.
Perde sensibilità.
E così non sentiamo più
quello che riceviamo
e quello che diamo.
Con il cuore.

sabato 2 gennaio 2010



......... D’un tratto ho visto mia madre e mio padre. Ho visto mia mamma e mio papà. Ho visto mia mamma che sorreggeva mio padre quando camminava ancora, sorreggendosi a mia mamma. O meglio, quando mia mamma aiutava mio padre a camminare. Erano un tutt’uno. Camminavano insieme. E lei accompagnava lui nelle sue ultime camminate. Come lui l’aveva sorretta con amore quando stava cadendo nella depressione. E l’aveva accompagnata sorreggendola. Ed adesso era lei a sorreggere lui.
Mi sono tornati tutti i sensi di colpa. Tutta la rabbia che avevo dentro è esplosa in un attimo. E ho pianto. Ho pianto tanto. Come non avevo fatto neanche il giorno della morte di mio papà.
Ad un tratto mi sono guardata dentro e ho visto la mia bambina interiore lungo una strada piena di sassi. Una strada stretta e lunga. Ero felice di camminare mano nella mano con il mio papà anche se lui non mi guardava mai e io ero troppo timida e imbarazzata per guardarlo. Era come se un sentimento di pudico rispetto c’impedisse di guardarci negli occhi ma sentivo che lui mi amava e io lo adoravo. Poi si è voltato verso me e mi ha sorriso. Mi ha lasciato lì, da sola ed è andato avanti. Volevo andare con lui ma sono rimasta ferma con il mio capottino nero sbottonato sul davanti. Si vedeva il vestitino di sangallo e nastrini che mi aveva fatto la mia mamma. Ero troppo piccola per corrergli dietro. Allora mi sono messa le manine sul viso e ho pianto. Perché non mi ha portato con sé? Avevo tante cose da dirgli e tanto amore da dargli e lui è andato via.
Dopo un anno che è morto mio padre ho finalmente trovato, dopo averla tanto cercata, la mia bambina interiore. Le sono corsa incontro e l’ho presa in braccio. L’ho coccolata e abbracciata e finalmente portata via da quella strada polverosa e solitaria. E finalmente il dolore si è attutito e mi è rimasto il sorriso che mio padre mi ha fatto alle cinque del mattino il quindici febbraio duemilasei. Mi ha regalato il suo ultimo sorriso con quel suo sguardo furbetto e burlone che aveva quando da piccoli ci faceva gli scherzi senza che la mamma vedesse.
Mio padre aveva il morbo di Alzheimer. La peggiore delle demenze. Una malattia che ti fa vivere la morte psichica di chi ami. E tu ti ritrovi sola e disperata in compagnia di un corpo che una volta sorrideva, amava, piangeva, mangiava, ma soprattutto interagiva con te nel modo cosiddetto intelligente. Una persona che nel momento del bisogno ti consolava e tu eri figlia e lui padre. Non avrei mai pensato di dover fare da culla a mio padre.
Quando mia mamma mi ha detto che mio papà si è ammalato di Alzheimer mi è crollato il mondo addosso perché sapevo perfettamente cosa mi aspettava e che non avrei potuto fare nulla per cambiare le cose. Proprio io! Che ero quella pronta a trovare soluzioni a tutto e per tutti. Mi sono sentita impotente e schiacciata dalla vita. Proprio come quando schiacci una formica con un dito.
Sono stata un mese circa senza andare là, li sentivo solo per telefono. E così poi mi sono sentita anche in colpa per avere lasciato sola mia mamma nel momento del bisogno. Poi un po’ alla volta ho ricominciato a vederli. E già cercavo in mio padre i sintomi di quella maledetta malattia. E per esorcizzare il tutto mi sono documentata fino allo spasimo. A che scopo poi se quando mia mamma mi chiedeva chiarimenti sulla malattia non ho mai voluto darglieli per non spaventarla.
….Vivevano in simbiosi. Lei lo accudiva e lui la guardava con amore mentre era nell’orto a piantare, annaffiare, seminare…. Una volta mio padre ha detto che mia mamma aveva un dono: bastava che appoggiasse un dito e nasceva un fiore. C’è stato un momento in cui l’orto è diventato per lei una valvola di sfogo. Mio papà è vissuto così a lungo perchè mia mamma è testarda. Mia mamma è sopravvissuta al tutto perché aveva l’orto da accudire. Gli aveva organizzato la giornata in modo tale che facevano tutti i giorni le stesse cose alla stessa ora. Anche il rosario che recitavano insieme. E lei alla fine pregava anche per lui. Gli metteva la corona in mano e diceva che era sicura che lui nel profondo della sua mente pregava con lei.
La mattina dell’unici febbraio alle sette mi squilla il cellulare. E’ mia mamma tutta preoccupata perché mio papà rantolava. Sono venti chilometri la barriera che ha diviso me e il resto della mia famiglia da dopo che mi sono sposata. Sono tanti. A volte sono stati troppi. Quante volte avrei voluto prendere la bici ed andare là. A rifugiarmi da mio papà. Ci bastava uno sguardo per capirci. Anche lui era uno spirito libero come me. Lui mi ha comprato i miei primi jeans.
…... Più tardi ci diranno che era un infarto. Che non c’era più niente da fare.
Un infarto del genere proprio il giorno del tuo ottantesimo compleanno non ti lascia scampo. Col fisico compromesso, in equilibrio precario, avrebbe potuto morire nel sonno, senza mangiare l’aria. Ma non si sarebbe voltato a sorridermi. Non mi avrebbe dato quella lezione di dignità. Mi ha fatto vedere come si muore. Adesso non ho più paura. Lui lo sapeva che io avevo paura della morte. E mi ha fatto vedere come si fa. Sono stata quattro notti al capezzale di mio padre. All’alba della quarta notte lui se n’è andato, serenamente. Io gli ho accarezzato la testa e gli ho chiuso gli occhi. “Ciao papino ci vediamo. Prega per me.”
All’improvviso il sonno è sparito e mi sono sentita pervasa da una strana energia. Come se con il suo ultimo respiro mio padre mi avesse trasmesso la sua ultima forza vitale.
Ed ho consolato tutti. I miei fratelli, mia sorella che poverina continuava a dirmi “ scusa, scusa non piango più “. Io non ho pianto. Non subito. Ed ho convissuto con la mia disperazione interiore fino a poco tempo fa. Tutti hanno ricevuto una parola di conforto. Io non ho avuto neanche le colleghe di lavoro al funerale.
Tutti mi hanno sempre ricordato che sono forte. Una donna d’acciaio. Mi sento fragile come le ali di una farfalla.
Io il lutto l'ho proprio vissuto. E' iniziato a febbraio quando mi hanno spostato di nucleo. Mi hanno spostato come si spostano i mobili, li metti dove sono più funzionali. E ti dicono che da un'altra parte sei più valorizzata, come spostare una bella credenza con le ante in vetro per fare vedere meglio i piatti che ci sono dentro. Me l'hanno proprio detto: "... è perchè vogliono dare una nuova immagine al nucleo, lo vogliono sgrezzare....". Mi hanno spostato il giorno del mio compleanno e non ho fatto che piangere, e ancora lo faccio. Ero felice con i miei "amici", li capivo al volo, ormai non c'era neanche più bisogno di parlare. Con i miei colleghi l'intesa era perfetta.
Ed allora perchè?
Adesso non voglio più affezionarmi a nessuno. E poi, perchè dovrei avere voglia di ridere?
Ma ci è permesso ridere? L'unica cosa che sono certa di dover fare e poter fare è leggere le consegne in guardiola. Tutto il resto è relativo. Si, c'è stato un tempo in cui mi sono illusa che serviva anche il mio parere. Mi sbagliavo. Siamo solo tanti burattini.
2010. Tempo di speranza, fogli bianchi, nuovo che avanza.
Tempo di riflessione.
Parto da un'ossservazione critica, da una frase apparentemente leggera, insignificante. Un nostro superiore al lavoro sostiene che ormai non ridiamo più.
In un primo momento mi sono chiesta cosa possa esserci di divertente in una vita di corsa, nel trascinare il corpo, stanco e debilitato, tra il lavoro, la scuola e la casa, ridotta ad un campo di battaglia, in cui costantemente cercare di mantenere un equilibrio tra autorità, regole, bisogno di libertà, autonomia, sogni dei figli. Famiglia che diventa luogo di battaglie o che genera rabbia inespressa.
Un lavoro che ormai è diventato pura esecuzione. Pur lavorando con e per persone affette da demenza, individui diversi uno dall'altro, con una propria storia, un proprio mondo personale, tutto si sta riducendo al rispetto di consegne, tabelle di marcia, orari, ordini.
Riflettere oggi significa andare indietro, scavare, indagare sul mio corpo, nella mia mente, nelle mie emozioni. cercare di superare la cattiva abitudine di tenere separati questi tre elementi, superare una scissione frutto del nostro tempo.
E' stato un anno difficile, importante comunque.
Un anno in cui mi sono improvvisamente scoperta essere il nemico di mio figlio. Difficile mantenere la calma, non farsi prendere dal panico. Difficile accettare questi momenti come passaggi necessari, indispensabili, per la sua crescita, per la sua autonomia. Difficile questa genitorialità.
Un anno di perdite, di lutti. Di mancanze improvvise che fanno cedere la terra sotto i piedi, che mettono in luce la nostra fragilità di individui, che nuovamente ci ricordano che siamo esseri finiti, incompiuti.
Entrano in gioco le paure, le somatizzazioni, il corpo condivide con la mente queste fragilità e comincia a spaventarsi, a zoppicare. Un corpo che ogni giorno sembra svegliarsi più fragile, stanco. Un corpo che smette di lottare, facilmente attaccabile dall'esterno.
Un anno di stanchezza nel lavoro. Talvolta con più energie spese ad arginare le ansie altrui che non verso gli ospiti. Un anno passato a cercare di non essere il bersaglio, a sforzarsi di corrispondere alle aspettative altrui.
Un anno in cui è stata bandita la fantasia, l'autonomia. In cui ognuno di noi cerca di essere perfetto in sè, in cui raramente vi è comunione, scambio, comprensione ed ascolto nei momenti di difficoltà.
E torno alla critica iniziale, a questa mia, nostra, sopravvenuta incapacità di ridere. Ora credo che ridere sia inteso come allegria, senso di speranza, cambiamento, scambio e miglioramento reciproco, rispetto.
Ecco, se abbiamo perso l'allegria, forse abbiamo perso la speranza.
E senza speranza si vive nella disperazione, nel determinismo. Nella disperazione si esce dalla storia. Non esiste possibilità di cambiamento.
Eppure io so che il cambiamento è sempre possibile. Il mondo non è. Il mondo è in divenire.
Quello su cui oggi rifletto, quello che constato è frutto della mia, nostra, esperienza. Si tratta ora di intervenire sulla realtà, di non adattarsi allo stato delle cose. La rassegnazione ci distrugge nel nostro essere.
La nostra umana vocazione, la nostra eticità sta nel voler essere di più, nella nostra innata tensione al miglioramento, nella speranza, nella storia.
La nostra affermazione oggi passa attraverso la ribellione.

martedì 29 dicembre 2009

Sono sempre stato Mario che guarda fuori.
Il mondo che passa, che scivola via silenzioso. Mario che ancora non arriva al tavolo, Mario triste, con gli occhi grandi, che trascina una sedia vicino alla finestra. Io sono Mario, in piedi, riflesso sul vetro, d'inverno a guardare le barche inghiottite dal mare. Io sono Mario, d'estate, con occhi e narici spalancati, a riempirmi di grida e colori.
Quando non guardavo fuori, disegnavo sul tavolo di marmo rosa. Nonna sorrideva, seduta accanto al fuoco. Mi raccontava del nonno che non avevo mai visto, di grandi imprese e di uomini strappati alla morte. Poi, nascosta dai silenzi e dalla minestra da girare, si affrettava ad asciugare le lacrime.
Io disegnavo enormi draghi dai colori del fuoco e del sangue. Ed il nonno vestito d'argento con una spada scintillante. Erano i disegni per la nonna, per consolarla del vuoto.
Lei li appendeva alla specchiera in camera, tra le foto e i libri delle preghiere.
Pregavamo insieme mattino e sera, in ginocchio sul morbido tappeto, alla luce della candela come piaceva a lei. Dopo le preghiere finivamo col raccontarci una storia, tra baci e promesse.
Sotto le coperte rivedevo il mondo scivolare via.