sabato 2 gennaio 2010

2010. Tempo di speranza, fogli bianchi, nuovo che avanza.
Tempo di riflessione.
Parto da un'ossservazione critica, da una frase apparentemente leggera, insignificante. Un nostro superiore al lavoro sostiene che ormai non ridiamo più.
In un primo momento mi sono chiesta cosa possa esserci di divertente in una vita di corsa, nel trascinare il corpo, stanco e debilitato, tra il lavoro, la scuola e la casa, ridotta ad un campo di battaglia, in cui costantemente cercare di mantenere un equilibrio tra autorità, regole, bisogno di libertà, autonomia, sogni dei figli. Famiglia che diventa luogo di battaglie o che genera rabbia inespressa.
Un lavoro che ormai è diventato pura esecuzione. Pur lavorando con e per persone affette da demenza, individui diversi uno dall'altro, con una propria storia, un proprio mondo personale, tutto si sta riducendo al rispetto di consegne, tabelle di marcia, orari, ordini.
Riflettere oggi significa andare indietro, scavare, indagare sul mio corpo, nella mia mente, nelle mie emozioni. cercare di superare la cattiva abitudine di tenere separati questi tre elementi, superare una scissione frutto del nostro tempo.
E' stato un anno difficile, importante comunque.
Un anno in cui mi sono improvvisamente scoperta essere il nemico di mio figlio. Difficile mantenere la calma, non farsi prendere dal panico. Difficile accettare questi momenti come passaggi necessari, indispensabili, per la sua crescita, per la sua autonomia. Difficile questa genitorialità.
Un anno di perdite, di lutti. Di mancanze improvvise che fanno cedere la terra sotto i piedi, che mettono in luce la nostra fragilità di individui, che nuovamente ci ricordano che siamo esseri finiti, incompiuti.
Entrano in gioco le paure, le somatizzazioni, il corpo condivide con la mente queste fragilità e comincia a spaventarsi, a zoppicare. Un corpo che ogni giorno sembra svegliarsi più fragile, stanco. Un corpo che smette di lottare, facilmente attaccabile dall'esterno.
Un anno di stanchezza nel lavoro. Talvolta con più energie spese ad arginare le ansie altrui che non verso gli ospiti. Un anno passato a cercare di non essere il bersaglio, a sforzarsi di corrispondere alle aspettative altrui.
Un anno in cui è stata bandita la fantasia, l'autonomia. In cui ognuno di noi cerca di essere perfetto in sè, in cui raramente vi è comunione, scambio, comprensione ed ascolto nei momenti di difficoltà.
E torno alla critica iniziale, a questa mia, nostra, sopravvenuta incapacità di ridere. Ora credo che ridere sia inteso come allegria, senso di speranza, cambiamento, scambio e miglioramento reciproco, rispetto.
Ecco, se abbiamo perso l'allegria, forse abbiamo perso la speranza.
E senza speranza si vive nella disperazione, nel determinismo. Nella disperazione si esce dalla storia. Non esiste possibilità di cambiamento.
Eppure io so che il cambiamento è sempre possibile. Il mondo non è. Il mondo è in divenire.
Quello su cui oggi rifletto, quello che constato è frutto della mia, nostra, esperienza. Si tratta ora di intervenire sulla realtà, di non adattarsi allo stato delle cose. La rassegnazione ci distrugge nel nostro essere.
La nostra umana vocazione, la nostra eticità sta nel voler essere di più, nella nostra innata tensione al miglioramento, nella speranza, nella storia.
La nostra affermazione oggi passa attraverso la ribellione.

1 commento:

  1. La speranza.
    Per qualcosa che ancora non c'è.
    Per un obiettivo da raggiungere.
    Per una nuova tappa.

    La speranza non si muove da sola.
    Ha bisogno del nostro aiuto.
    E noi di lei . . . per andare avanti.

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