
......... D’un tratto ho visto mia madre e mio padre. Ho visto mia mamma e mio papà. Ho visto mia mamma che sorreggeva mio padre quando camminava ancora, sorreggendosi a mia mamma. O meglio, quando mia mamma aiutava mio padre a camminare. Erano un tutt’uno. Camminavano insieme. E lei accompagnava lui nelle sue ultime camminate. Come lui l’aveva sorretta con amore quando stava cadendo nella depressione. E l’aveva accompagnata sorreggendola. Ed adesso era lei a sorreggere lui.
Mi sono tornati tutti i sensi di colpa. Tutta la rabbia che avevo dentro è esplosa in un attimo. E ho pianto. Ho pianto tanto. Come non avevo fatto neanche il giorno della morte di mio papà.
Ad un tratto mi sono guardata dentro e ho visto la mia bambina interiore lungo una strada piena di sassi. Una strada stretta e lunga. Ero felice di camminare mano nella mano con il mio papà anche se lui non mi guardava mai e io ero troppo timida e imbarazzata per guardarlo. Era come se un sentimento di pudico rispetto c’impedisse di guardarci negli occhi ma sentivo che lui mi amava e io lo adoravo. Poi si è voltato verso me e mi ha sorriso. Mi ha lasciato lì, da sola ed è andato avanti. Volevo andare con lui ma sono rimasta ferma con il mio capottino nero sbottonato sul davanti. Si vedeva il vestitino di sangallo e nastrini che mi aveva fatto la mia mamma. Ero troppo piccola per corrergli dietro. Allora mi sono messa le manine sul viso e ho pianto. Perché non mi ha portato con sé? Avevo tante cose da dirgli e tanto amore da dargli e lui è andato via.
Dopo un anno che è morto mio padre ho finalmente trovato, dopo averla tanto cercata, la mia bambina interiore. Le sono corsa incontro e l’ho presa in braccio. L’ho coccolata e abbracciata e finalmente portata via da quella strada polverosa e solitaria. E finalmente il dolore si è attutito e mi è rimasto il sorriso che mio padre mi ha fatto alle cinque del mattino il quindici febbraio duemilasei. Mi ha regalato il suo ultimo sorriso con quel suo sguardo furbetto e burlone che aveva quando da piccoli ci faceva gli scherzi senza che la mamma vedesse.
Mio padre aveva il morbo di Alzheimer. La peggiore delle demenze. Una malattia che ti fa vivere la morte psichica di chi ami. E tu ti ritrovi sola e disperata in compagnia di un corpo che una volta sorrideva, amava, piangeva, mangiava, ma soprattutto interagiva con te nel modo cosiddetto intelligente. Una persona che nel momento del bisogno ti consolava e tu eri figlia e lui padre. Non avrei mai pensato di dover fare da culla a mio padre.
Quando mia mamma mi ha detto che mio papà si è ammalato di Alzheimer mi è crollato il mondo addosso perché sapevo perfettamente cosa mi aspettava e che non avrei potuto fare nulla per cambiare le cose. Proprio io! Che ero quella pronta a trovare soluzioni a tutto e per tutti. Mi sono sentita impotente e schiacciata dalla vita. Proprio come quando schiacci una formica con un dito.
Sono stata un mese circa senza andare là, li sentivo solo per telefono. E così poi mi sono sentita anche in colpa per avere lasciato sola mia mamma nel momento del bisogno. Poi un po’ alla volta ho ricominciato a vederli. E già cercavo in mio padre i sintomi di quella maledetta malattia. E per esorcizzare il tutto mi sono documentata fino allo spasimo. A che scopo poi se quando mia mamma mi chiedeva chiarimenti sulla malattia non ho mai voluto darglieli per non spaventarla.
….Vivevano in simbiosi. Lei lo accudiva e lui la guardava con amore mentre era nell’orto a piantare, annaffiare, seminare…. Una volta mio padre ha detto che mia mamma aveva un dono: bastava che appoggiasse un dito e nasceva un fiore. C’è stato un momento in cui l’orto è diventato per lei una valvola di sfogo. Mio papà è vissuto così a lungo perchè mia mamma è testarda. Mia mamma è sopravvissuta al tutto perché aveva l’orto da accudire. Gli aveva organizzato la giornata in modo tale che facevano tutti i giorni le stesse cose alla stessa ora. Anche il rosario che recitavano insieme. E lei alla fine pregava anche per lui. Gli metteva la corona in mano e diceva che era sicura che lui nel profondo della sua mente pregava con lei.
La mattina dell’unici febbraio alle sette mi squilla il cellulare. E’ mia mamma tutta preoccupata perché mio papà rantolava. Sono venti chilometri la barriera che ha diviso me e il resto della mia famiglia da dopo che mi sono sposata. Sono tanti. A volte sono stati troppi. Quante volte avrei voluto prendere la bici ed andare là. A rifugiarmi da mio papà. Ci bastava uno sguardo per capirci. Anche lui era uno spirito libero come me. Lui mi ha comprato i miei primi jeans.
…... Più tardi ci diranno che era un infarto. Che non c’era più niente da fare.
Un infarto del genere proprio il giorno del tuo ottantesimo compleanno non ti lascia scampo. Col fisico compromesso, in equilibrio precario, avrebbe potuto morire nel sonno, senza mangiare l’aria. Ma non si sarebbe voltato a sorridermi. Non mi avrebbe dato quella lezione di dignità. Mi ha fatto vedere come si muore. Adesso non ho più paura. Lui lo sapeva che io avevo paura della morte. E mi ha fatto vedere come si fa. Sono stata quattro notti al capezzale di mio padre. All’alba della quarta notte lui se n’è andato, serenamente. Io gli ho accarezzato la testa e gli ho chiuso gli occhi. “Ciao papino ci vediamo. Prega per me.”
All’improvviso il sonno è sparito e mi sono sentita pervasa da una strana energia. Come se con il suo ultimo respiro mio padre mi avesse trasmesso la sua ultima forza vitale.
Ed ho consolato tutti. I miei fratelli, mia sorella che poverina continuava a dirmi “ scusa, scusa non piango più “. Io non ho pianto. Non subito. Ed ho convissuto con la mia disperazione interiore fino a poco tempo fa. Tutti hanno ricevuto una parola di conforto. Io non ho avuto neanche le colleghe di lavoro al funerale.
Tutti mi hanno sempre ricordato che sono forte. Una donna d’acciaio. Mi sento fragile come le ali di una farfalla.
Grazie . . . .
RispondiEliminaSono bellissime le farfalle,
e sanno volare,
silenziose e leggere.
Grazie a te...
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